Racconto "Gli altri" di Federico Tamanini

Eccovi il racconto PERDENTE al concorso Urania Short!

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.  
    .
    Avatar

    Junior Member

    Group
    Administrator
    Posts
    48

    Status
    Offline
    Era enorme. L’immenso scafo dell’astronave giaceva sulla spiaggia e se si osservava dalla coda si faceva fatica a vederne il muso. Per Max era affascinante e repellente. La sua maestosa grandezza, la sua potenza, la sua passata gloria, che poteva solo immaginare, erano una irresistibile attrattiva. Al contempo la sua mostruosa massa, la vecchiezza, il destino di consunzione e morte lo allontanavano.
    L’astronave, con il suo carico di storia e misteri, rimaneva sdraiata al limite tra terra e mare e gli uccelli ne usavano la sommità per costruire i nidi. Passeggiando intorno al relitto, lungo oltre cinquecento metri, Max giunse ad un portello che era sempre stato chiuso, ma ora una serratura aveva ceduto e una sottile fessura si presentava al bambino come un richiamo. Osservò a lungo poi, spaventato dall’idea di toccare il vecchio metallo o trovarsi schiacciato sotto la porta, si allontanò correndo. Risalita la collina dietro la quale sorgeva la sua casa, Max si voltò ad osservare nuovamente la nave. Era immensa anche da lontano.
    Apparve nonno Jillan, che a sera spesso saliva sulla collina e lesse lo sguardo di Max.
    «È ancora bella.» disse «Sai, ha esplorato il cosmo e combattuto ai confini estremi del sistema, dove i Makos avevano il loro avamposto.»
    «Conosci la sua storia, nonno?»
    «Oh, sì. Io servivo sulla Invincible, che era davvero superba. Ma quando arrivò lei…» l’uomo increspò le labbra in un sorriso «…tutte le altre smisero di sembrare così potenti. La Revenge doveva risolvere lo stallo della guerra, far capire ai Makos che il nostro sistema solare è la nostra casa.»
    «C’eri quando ha combattuto?»
    «Eccome! La Revenge ha incassato incredibili colpi dei disgregatori Makos sparati dai loro incrociatori e si è posta a copertura alle altre navi, tra cui la mia. Lo scafo della Revenge era impenetrabile alle armi cinetiche, ma quelle ad energia l’hanno ferita.»
    «E cosa è successo?»
    «Hai visto l’altro lato?»
    «No, ci sono gli scogli, mamma e papà non vogliono che mi avvicini alla nave, figuriamoci se sapessero che sono andato anche sugli scogli.»
    «Capisco… l’altro lato è diverso da questo. Enormi squarci, navette-spillo di Makos piantate nel fianco, paratie di lancio saltate. Le ha prese. E forte.»
    «Ma ha anche combattuto…» - disse Max sperando di sentire racconti di gloria.
    «Oh, eccome! Quando la Revenge sparava dai suoi cannoni turbolaser il buio del cosmo scompariva! Quando si aprivano i portelli ed usciva lo sciame di caccia Delta non rimaneva un buco libero nell’intero settore. E i suoi siluri… ciascuno era grande come una navetta shuttle, di quelle che usi per andare sull’isola madre.»
    «Wow!» il ragazzo sospirò.
    «Ma quei tempi sono finiti, Max. Ed è meglio così. Quella nave era bella, ma la guerra… proprio no. Andiamo.»
    Si incamminarono verso casa, dove mamma, papà ed una zuppa di patate viola attendevano i denti giovani e quelli meno giovani. La notte scese senza rumore, il cielo si popolò di stelle antiche.

    Il mattino dopo non c’era scuola, lo shuttle non sarebbe passato. Max tornò alla spiaggia in cerca di conchiglie e si avvicinò di nuovo allo scafo. Si alzò un vento forte, come accadeva di frequente, e un suono colossale per potenza e profondità lo spaventò. Poi il bambino tornò tranquillo, era già accaduto. L’aria si infilava in qualche fessura - Max immaginava si trattasse delle grandi ferite sull’altro lato - e talvolta faceva ruggire il ventre sconfinato della Revenge come il più immenso degli antichi cetacei estinti. Max si chiese quante meraviglie tecnologiche ci fossero ancora dentro la nave. Il portello che il giorno prima era appena scostato dallo scafo, ora appariva aperto per almeno un palmo. Sbirciò all’interno, ma c’era solo buio. Cercò in terra un ramo per aprire il portello, ma ne trovò solo uno fragile che si ruppe subito. Riprese ad osservare l’interno: sempre buio. Il mare stava crescendo, il bambino dovette allontanarsi dal portello mentre l’acqua lo raggiungeva fino a sommergerlo. Max risalì la collina, incontrando di nuovo il nonno.
    «Non ti farai venire in mente di entrarci, vero?»
    «Cosa? Io? Ma no, nonno!»
    «Lo sai cosa c’è lì dentro?»
    Max lo guardò negli occhi, scuotendo il capo. Il vecchio sorrise sotto i baffi, divertito dall’immensità degli occhi di suo nipote. Occhi voraci, desiderosi di storie, ma anche un po’ timorosi. Jillan sapeva molte cose sulla Revenge.
    «Lì dentro c’è ancora tutto l’equipaggio!»
    «Ma no, dai nonno, non ci credo…»
    «Credici, ragazzo. La Revenge ha combattuto oltre Giove fino a distruggere la seconda flotta Makos, poi, sebbene gravemente danneggiata, è tornata in orbita terrestre per rompere l’assedio delle ultime forze nemiche. E proprio qui ha moltiplicato la sua gloria. La Invicible era quasi distrutta, siamo riusciti ad atterrare per miracolo. Alzando il naso al cielo si potevano vedere i lampi della battaglia che infuriava. La Restless venne distrutta, così come la Dominion. La Void, insieme ad altre sei fregate si trasformarono in meteore e bruciarono nell’atmosfera. Ma lei…» si fermò un momento osservando il relitto sulla spiaggia «… lei continuava ad incassare colpi e vomitare energia dai cannoni, nonostante il suo fianco fosse già devastato. Era l’ultima difesa della Terra. Uno dopo l’altro gli incrociatori Makos vennero spezzati, inceneriti, ridotti a rottami spaziali.»
    «Da sola la Revenge ha vinto la battaglia?»
    «Oh, no! Le altre navi e gli equipaggi che si sono sacrificati per la Terra hanno combattuto fino all’ultimo, ma di certo la Revenge ha finito la battaglia. I pochi Makos sopravvissuti sono fuggiti vendendo che nonostante le fiammate dallo scafo, nonostante i motori di manovra distrutti la Revenge continuava a combattere.»
    «E poi? Com’è finita qui?»
    «Eh… vuoi sapere com’è finita qui? È presto detto: ferita a morte la Revenge ha tentato l’atterraggio, riuscendo a non precipitare troppo rapidamente, ma non poteva raggiungere uno spazioporto. Ha incontrato il mare laggiù, all’orizzonte, poi ha finito la sua corsa sulla spiaggia. Questo era il massimo che potesse fare.»
    «E l’equipaggio?»
    «Tutti morti, a parte un esiguo numero di uomini e donne che sono riusciti a lanciarsi. La nave è stata portata qui dal suo computer.»
    «Oh…» - Max spostò lo sguardo dal nonno all'astronave da guerra. Sapere che quell’incredibile mostro di metallo e polimeri aveva combattuto fino allo stremo e poi era venuto, da solo, a morire lì, a pochi passi da casa sua, lo riempiva di meraviglia.
    «Allora… andava riparata!» - aggiunse il bambino.
    «No… l’umanità era allo stremo, dopo tutti quegli anni di guerra. Sono state riparate le navi più integre e mandate oltre Plutone a sorvegliare i confini. Sono stati ripristinati i grandi cannoni orbitali. Ma per il resto andavano ricostruite le città, le fabbriche, tutte le cose che i Makos avevano bombardato e distrutto. La gente moriva di fame. Tu per fortuna non sai niente di queste cose.»
    Così dicendo il vecchio passò la mano tra i capelli del bambino, poi si avviò verso casa.
    Max rimase lì, sulla collina, per dieci minuti, poi lo seguì.

    Il pomeriggio seguente il bambino prese un vecchio sentiero che dalla collina portava al fiordo che abbracciava la spiaggia. Alto e roccioso era un punto di osservazione perfetto, ma gli era sempre stato proibito andarci perché pericoloso. Si fermò prima di aver raggiunto le rocce, la posizione ideale, quella che gli avrebbe mostrato la fiancata destra, arrivò solo al termine del sentiero da dove poté vedere la prua della Revenge. L’immenso cilindro, popolato di torrette, cannoni ed elementi radianti per gli scudi, aveva sul fianco verso il mare i piccoli profili di cose conficcate nello scafo. Max non riusciva a vederle bene, gli sembravano chiodi, non più grandi di un suo dito, piantati nella pancia di una mucca. Solo che la mucca era lunga mezzo chilometro e i chiodi trenta metri. Non riusciva a scorgere altro, il fianco devastato era fuori dalla sua portata come lo sarebbe il lato di un treno osservato stando in mezzo ai binari davanti alla locomotiva. Rimase un po’ in osservazione, poi tornò indietro, alla collina, scese verso il mare e raggiunse il portello sul lato sinistro dello scafo. Era ancora più aperto del giorno prima e Max si accorse che ora con la luce del primo pomeriggio che entrava dall’apertura più ampia poteva vedere qualche forma: una trave, un pannello con pulsanti. Poi solo buio. Ma quel giorno aveva messo in tasca una piccola torcia. Mancavano due ore prima che l’acqua invadesse il portello a causa della marea, si voltò ad osservare la collina: nessuna traccia del nonno. Sarebbe arrivato poco prima di cena per la sua consueta passeggiata. Max toccò il portello. Era freddo. Provò ad aprirlo di più, ma non ci riuscì.
    Se voleva entrare doveva infilarsi nella fessura, strisciare.
    Si infilò. Strisciò.
    E si trovò finalmente dentro. Era dentro. Era nella Revenge. I vestiti erano bagnati perché il portello andava sott’acqua ogni notte. Accese la torcia. Le superfici in polimero metamorfico color panna erano lucide di umidità e ricoprivano pareti, pavimento e soffitto. Perfettamente lisce non avevano dovuto reagire ad alcun danno o falla dello scafo modificando la loro forma e tappando una ferita della nave. Il corridoio era un budello dritto senza nulla a interrompere la sua perfetta armonia. La luce della torcia si perdeva nel pallido nulla che penetrava nella Revenge. Max aveva paura ed era al contempo eccitato. Guardò fuori: la spiaggia lo attendeva. Il mare era ancora basso. Poteva uscire subito e pensarci con calma, la nave non sarebbe scappata quella notte. Rivolse nuovamente lo sguardo all’interno. Pensò che pochi passi non lo avrebbero ucciso e se avesse visto un cadavere - sua più grande paura - sarebbe rimasto a distanza.
    Camminò in leggera salita perché lo scafo era inclinato di alcuni gradi. Le scarpe sul pavimento bagnato facevano rumore. Dieci passi. Poi altri venti, fino a dove, grazie alla pendenza, tutto era asciutto. Proseguì. Incontrò una paratia che dava su un secondo corridoio, perpendicolare a quello in cui si trovava. Max immaginò che solo in quel punto sarebbe entrato davvero nello scafo e che tutti i passi già compiuti servivano ad oltrepassare la poderosa pelle del mostro spaziale in cui era entrato. Avanzò solo per vedere oltre, nel corridoio che era davvero dentro. La torcia danzò rapida, prima a destra poi a sinistra, per illuminare entrambi i lati. A sinistra Max vide che il pavimento era ingombro di qualcosa. Fissò il cono di luce sui mucchi, rossi e neri. Capì: il rosso erano tute; il nero caschi. A pochi passi dal mondo esterno, a pochi passi dal punto sulla spiaggia dal quale lui aveva sempre sognato di entrare nella Revenge già c’erano i primi morti. Scappò, in fretta, strisciò tra scafo e portello, corse sulla sabbia e poi fino alla cima della collina dove si fermò. Dietro di lui l’enorme vascello era sempre lì, immobile. Il mare a breve avrebbe tappato di nuovo il portello e questo, per il bambino, era consolatorio. Di notte i morti non potevano uscire.
    In quel momento lo raggiunse il nonno.
    «Cosa vuoi che ti racconti, oggi?»
    «Non so.» - Max guardava a terra.
    «Qualcosa ti turba. Cosa c’è?»
    «Niente. Non c’è niente.»
    «Dai…» - gli diede un colpetto sulla spalla.
    «Niente, nonno.»
    «Va bene, non vuoi dirmelo.»
    Rimasero in silenzio a guardare il mare, la spiaggia e il suo ingombrante ospite. Dopo molti minuti il bambino sospirò.
    «Come sono morte le persone lì dentro?»
    Il nonno comprese quale fosse la preoccupazione del nipote.
    «Non possono uscire di lì. Ieri ti ho raccontato troppo, forse.»
    «Ma certo, nonno! So che non escono, dai non sono più piccolo!»
    Al nonno venne spontaneo un sorriso. Max aveva dieci anni e credeva di essere già un po’ grande. Ma per fortuna non era vero.
    «Vuoi sapere come sono morte?»
    «Sì.»
    «Beh… alcune a causa della decompressione, gli squarci nello scafo hanno fatto uscire l'aria e sono morti soffocati prima che il metallo metamorfico si richiudesse.»
    «Oddio…»
    «Ah, ma sono stati fortunati!» - il nonno sorrise sotto i baffi.
    «Perché?»
    «Perché… qualcuno potrebbe essersi rifugiato nelle aree più interne e magari è rimasto lì, intrappolato per una porta bloccata o perché ferito.»
    «Ma non è andato nessuno lì dentro per cercare gente ancora viva?»
    «No, nessuno.»
    Max alzò la voce - «Ma perché?»
    «Perché, perché… quante domande...»
    «Ma non si dovrebbero togliere i morti, nonno?»
    «Oh, no. Quei morti sono suoi. Sono morti con lei. Fanno parte di lei.»
    Parlarono a lungo, finché l’acqua non sommerse il portello. finché una donna venne a chiamarli per la cena, un po’ preoccupata. Max sognò volti senza vita, in tute rosse strappate, che lo invitavano a far loro visita, perché erano soli e dimenticati da tutti.
    Il giorno successivo, dopo la scuola, Max rimase sulla collina. Temeva che se fosse giunto fino al portello sarebbe entrato di nuovo ed avrebbe percorso altri corridoi oscuri e visto cose terribili. Attese che il mare salisse, si sedette e sopportò il vento, umido e freddo quel giorno, che entrava nelle orecchie e accarezzava il collo. L’erba lucida gli bagnò i pantaloni. Una farfalla dal volo agitato si posò più volte sul suo ginocchio. Il nonno non lo raggiunse, quel giorno. Max si trovò solo, fino al tramonto, ad osservare lo scafo colossale, in apparenza morto, ma, per lui, gravido di segreti. Lo chiamava. Quella notte sognò di nuovo gli stessi volti, nelle stesse tute rosse. Erano tristi e piangevano per la solitudine. Max si svegliò nella notte, agitato. Erano le tre del mattino e non voleva più chiudere gli occhi. Si mise la tuta azzurra e infilò i piedi nelle pantofole morbide per scendere in cucina. Il nonno, che dormiva poco, era seduto su una poltrona con in mano uno dei suoi strani, vecchi, libri di carta.
    «Max! Che ci fai sveglio?»
    «Nulla… cosa leggi?» - chiese il bambino.
    «Ah… questo. È un romanzo. Un romanzo di fantascienza. Lo ha scritto un italiano, molto tempo fa. È raro, sai, lo hanno letto in pochi.»
    «Di cosa parla?»
    «Della solita intelligenza artificiale che domina il mondo. Cose mai accadute, per fortuna. Ma dimmi… qualcosa ti turba?»
    «No…» - Max scostò una sedia dal tavolo e si accomodò. Il nonno attese.
    «Nonno…» - disse il bambino dopo un minuto di silenzio - «…ci saranno molti cadaveri dentro?»
    «Dentro la nave?»
    Max annuì.
    «Immagino di sì, Max.»
    Tornò il silenzio, rotto dal gocciolare di un rubinetto. La cucina era fredda, il nonno si era rifugiato in una coperta a quadri, Max si chiuse tra le proprie braccia, iniziando a tremare un poco.
    «Vieni qui.» - disse il nonno, scostando la coperta. Il bambino si lanciò sulla poltrona per accogliere il caldo abbraccio del nonno.
    «Molti quanti?»
    «Non saprei. Migliaia, penso.»
    «Ma se la nave è ancora integra perché non sono arrivati a terra vivi?»
    «Erano già morti lassù. Senza aria, oppure per le esplosioni ed i colpi che hanno attraversato lo scafo. Forse anche per qualche Makos che è riuscito ad entrare.»
    «E nessuno è andato a vedere?»
    «No. Il governo non aveva tempo da perdere per un relitto. L’umanità in quei giorni era come un cowboy con tre pallottole in corpo. C’era giusto la forza per rialzarsi e sparare l’ultimo colpo al nemico.»
    «E se fossero vivi?»
    «Vivi? Ma chi? Quelli che hanno potuto farlo sono fuggiti nelle capsule, gli altri saranno morti.»
    «Ma come lo sappiamo? Se nessuno è andato a vedere, intendo.»
    «Lo sappiamo perché sono passati decenni. Io avevo cercato di capirci qualcosa, ma non c’era modo di entrare. Ed ormai, anche se qualcuno fosse sopravvissuto all’atterraggio…»
    «Mmm…»
    «Cosa c’è, Max?»
    «Solo che… non siamo sicuri.»
    «Lo siamo, Max. Dopo tutto questo tempo.»
    Non dissero altro. Il bambino si strinse al nonno e presto si riaddormentò.

    Il giorno successivo Max non andò a scuola. Scese presto alla spiaggia per avere più tempo dentro la Revenge. Il portello era ancora un po’ più aperto ed entrò senza dover strisciare. Aveva due torce, per fare più luce, una giacca gialla pesante ed un trasmettitore giocattolo, il cui gemello era casa sul tavolo della cucina. Il primo corridoio non gli faceva più paura, il secondo, invece lo terrorizzava. Giunto al cumulo di giacche rosse e caschi neri si trovò immobilizzato, di fronte a quei cadaveri vecchi e dimenticati. Mosse freneticamente le torce per illuminare anche l’altra parte di corridoio. Per cinque minuti attese senza muovere un passo. Il tempo lo tranquillizzò, non stava accadendo nulla. Il suo fiato produceva piccole nuvole. Mosse i primi passi verso i corpi e vide che oltre ce n’erano altri. Si fece coraggio e continuò, un passo alla volta, scavalcando tute rosse con dentro resti di uomini e donne. Erano quasi tutti sdraiati in avanti nella medesima direzione, Max pensò che volessero raggiungere il portello e che fossero morti per la decompressione o altro. Immaginò un gas velenoso, dei raggi mortali, un cannone sonico come quello dei fumetti di Capitan Kosmos che leggeva da un paio di anni. Le sue torce illuminavano una ventina di metri avanti e, piano piano, si abituò alla vista della morte. Camminò a lungo. Finalmente trovò una porta, aperta sulla destra, ovvero verso l’interno della nave. Era una stiva, piena di contenitori cubici, tutti uguali, da cui uscivano cavi e tubi che si innestavano nel pavimento. Il freddo era pungente. Max pose un passo dopo l’altro, spaventato, ma anche curioso. Le grandi scatole alte tre metri erano pareti ed angoli sul suo cammino e, in breve, Max perse il senso dell’orientamento. Illuminando in alto vedeva, a sei metri di altezza, un soffitto di metallo. Per il resto solo cubi, tutti uguali, tutti neri. Ogni passo portava ad un altro labirinto di cubi. Max iniziò a temere di essersi perduto. Il freddo lo fece tremare, il silenzio totale lo spaventava. Era immensamente solo, dentro un mostro di metallo dalle cui viscere non sapeva come uscire. Iniziò a correre istintivamente, senza logica, finché non cadde a terra scivolando sul pavimento e battendo la testa contro la parete di un cubo. Si accorse che la parete non era totalmente liscia ed uniforme, ma celava quello che appariva come un piccolo pulsante quadrato quasi invisibile. Esaminò i cubi vicini, trovando la medesima anomalia. Max sfiorò il pulsante. Provò a premerlo. Non accadde nulla. Passò al cubo successivo, poi a quello ancora oltre. Dopo dieci cubi ne trovò uno differente: sopra l’anomalia si potevano scorgere, ma solo nel buio più totale, deboli tracce luminose, grandi come il palmo di una mano: numeri. Max passò il dito sui numeri togliendo la polvere e lesse un sette ed un tre. Settantatre. Toccò il pulsante, lo premette con forza e sentì un ronzio. Poi un sibilo. L’intera parete del cubo si sollevò lenta, lasciando uscire una flebile luce azzurra. Max si allontanò, cercò riparo dietro un altro cubo, spense le torce. La parete si alzò completamente svelando l’interno. In quella capsula nera, semisdraiato su una poltrona dall’aspetto essenziale c’era un corpo. Max lo osservò da lontano. Era umano, collegato a tubi e cavi, immobilizzato da cinghie, circondato da piccole luci. Il corpo era immobile e non pareva decomposto come quelli nei corridoi, sebbene la pelle fosse pallida e secca e i capelli bianchi e radi. Max attese molti minuti osservando la sua scoperta. L’uomo - o almeno questo pareva a Max - indossava una tuta che doveva essere stata bianca, ma appariva beige in molti punti. Max si avvicinò al corpo. La bocca era semiaperta e mostrava denti gialli. Le mani avevano unghie lunghe. Nel collo dell’uomo un connettore metallico sulla destra della trachea era connesso ad un tubo trasparente. Dopo dieci minuti Max stabilì che quell’essere non si muoveva e doveva aver perso la vita molto tempo prima. All’improvviso un rumore elettronico fece trasalire Max che urlò. L’urlo risuonò in tutta la stiva portando per la prima volta dopo tanti anni uno strappo al silenzio. Era la sveglia del suo orologio da polso per non dimenticarsi della marea. Raccolse le torce che gli erano cadute a terra, doveva trovare l’uscita. Ma non aveva idea di come fare. Si mise a piangere e si inginocchiò, le spalle al cubo aperto, urlando «Voglio uscire!»

    «Non… piangere…» - sentì dietro di lui. Trasalì. Corse verso un cubo qualunque per nascondersi nuovamente.
    «Non… avere… paura…»
    Max si coprì il volto con le mani e singhiozzò. Voleva tornare subito all’esterno, correre via e raggiungere sua madre, suo padre e il nonno, voleva dimenticare quell’oscuro inferno metallico, ma era prigioniero.
    «Non… avere… paura…» - la voce era debole e sibilante. Dal silenzio emerse un suono ciclico, il rumore di una pompa. Max si sporse dal suo nascondiglio e vide che le luci intorno al corpo avevano acquistato vigore.
    «Non… avere… paura…»
    Max vide che le labbra dell’uomo dalla pelle bianca e secca si muovevano in modo impercettibile. Gli occhi erano semichiusi. Il tubo che entrava nella gola dell’uomo non era più immobile, oscillava in sincronia con il suono ciclico che ora si sentiva più forte.
    «Non… avere…»
    «Io non ho paura!» - disse Max asciugandosi le lacrime.
    «Vieni… allora…»
    Max non si mosse.
    «Vieni… »
    Max non si mosse.
    «Ti… dirò… come… uscire…» - il corpo sussultò, come per uno spasmo o un dolore. Dalla gola dell’uomo uscirono sibili e lamenti. Il bambino si avvicinò di un solo passo.
    «Bene… non temere… mi riprenderò… presto e ti… aiuterò ad uscire…»
    «Chi sei?» - chiese Max.
    «Mi serve… un po’ di tempo… debole… sono debole…» - così dicendo inalò rumorosamente. Il tubo smise di agitarsi, il rumore della pompa cessò.
    «Chi sei?»
    «Non… ricordo il mio nome. Io ricordo solo… quello che ho fatto… prima…»
    «Prima?»
    «Prima… di… questo.»
    «Cos’hai fatto?»
    «Io… pilota.»
    «Tu eri un pilota? Un pilota da caccia?»
    «Pilota, sì.»
    «Hai combattuto per la flotta terrestre?»
    «Pilota, sì. Sono… debole…»
    «Chiederò aiuto, ti porteranno fuori di qui.»
    «Aspetta… vedo solo buio…»
    «È buio. Sei nella stiva della Revenge. La nave è atterrata tempo fa, non so quanto. Pensavano che non ci fosse più nessuno di vivo. Io l’ho detto al nonno che avrebbero dovuto cercare dentro…»
    «Nonno? Stiva…ora… inizio a ricordare…»
    «Come ti chiami?»
    «Non so… che anno è?»
    Max rispose.
    «Oddio…» l’uomo iniziò a singhiozzare.
    «Che c’è? Perché piangi? Ti tireranno fuori da lì, non preoccuparti. Chiamerò papà, ti aiuteranno. Se solo uscirò da qui. Sai come uscire?»
    «Io… no…» ansimò «… sono qui dentro da… più di cinquant’anni…»
    Max spalancò gli occhi.
    «Hai… dormito tutto questo tempo?»
    «No, non ho sempre dormito. Questa macchina… mi tiene sospeso nel tempo, ma deve essere difettosa perché spesso mi sveglio e vedo solo buio… sento solo dolore… Sono qui… da cinquant’anni!» l’uomo gemette.
    «No, non piangere, dai ti aiuto io!» disse Max, avvicinandosi «Io sono Max.»
    «Max… un bel… nome.»
    «Grazie.» il bambino si avvicinò ancora.
    «Max, io… vorrei tanto essere liberato da… questo.»
    «Certo, vediamo…» Max studiò un pannello nel cubo. I pulsanti non erano molti.
    «Non so cosa fare…» disse.
    «Slaccia le cinghie. Col resto me la vedo io.» rispose l’uomo. Max slacciò le cinghie che tenevano le braccia attaccate al lettino, poi passò a quella sul torace.
    «La testa, ora.» disse l’uomo.
    Max aveva ancora paura di quello che si trovava davanti. La pelle bianca, grinzosa, lo repelleva. L’odore dell’uomo, poi, era sgradevole da togliere il fiato. E il suo volto era lungo ed ossuto con occhi chiari al punto da sembrare grigi. Orribile. Max immaginò che qualche decennio dentro una capsula, prigioniero di uno stato di semicoscienza, senza mai mangiare, senza mai bere, potessero avere effetti mostruosi sul corpo di una persona. Si convinse che non era colpa di quel corpo, se era così. Ma gli venne un dubbio.
    «Perché sei qui?» chiese il bambino. Intanto l’uomo mosse debolmente il braccio sinistro verso la testa, cercando l’innesto della cinghia.
    «Sono qui… perché…» l’uomo si interruppe tossendo con violenza. Riuscì a sganciare la cinghia e liberarsi la testa. Col braccio destro invaso di tubi trasparenti pieni di liquido arancione e cavi sottili raggiunse la gola dove armeggiò con l’innesto dell’aria fino a scollegarlo. Sollevò le gambe magre liberandosi dalle cinghie alle caviglie, troppo larghe per quel corpo secco, poi tentò di scendere dal lettino inclinato di trenta gradi. Cadde quindi a terra strappandosi di dosso tutti i collegamenti tra il suo corpo e la capsula. La tuta sporca si macchiò di sangue chiaro e Max si trovò di fronte ad un cadavere vivo, un mucchio di ossa che rantolava sul pavimento freddo. Quando l’essere riuscì a sollevare il volto Max vide su di esso la sofferenza, insieme ad un sentimento che non sapeva riconoscere, ma che lo turbò. Pareva di leggere, negli occhi grigi, la rabbia della mamma quando lui aveva fatto cadere l’intera collezione di porcellane a cui lei teneva tanto. Moltiplicata per cento. Ma durò solo un attimo. Il corpo si alzò con fatica. Stava recuperando le forze. Max si guardò intorno, vedendo cubi nel buio, luce pallida dalla capsula, l’uomo secco e bianco che, alzatosi, dondolava davanti a lui. Il corpo algido si trascinò verso un altro cubo in cerca di un modo per aprirlo, ma non ci fu nulla da fare. Provò con un secondo ed un terzo. Tutti spenti, morti, impossibili da aprire.
    «Maledetti!» urlò. Poi si rivolse a Max «Vieni qui.»
    «Perché eri lì dentro?» chiese ancora Max.
    «Questo non è importante, te lo spiegherò, ma ora aiutami, dobbiamo uscire.» l’uomo tese un braccio ed avanzò incespicando verso Max che si spaventò e fece un salto indietro cadendo a terra. Raccolse una delle torce che aveva depositato sul pavimento, si rialzò e cercò riparo dietro l’angolo di un cubo.
    «Aiutami!» il volto dell’uomo pallido si deformò per il dolore e la rabbia, la voce risuonò nella stiva. Avanzò ancora verso il bambino, sentendo il corpo che si risvegliava lentamente. Gli occhi erano lo specchio della sua furia.
    Max, colto dal terrore, scappò, l’istinto lo fece volare nel buio dove il cerchio di luce della torcia faceva apparire e scomparire gli spigoli neri delle capsule. Corse a perdifiato cambiando direzione in modo caotico ad ogni quadrivio di cubi finché arrivò ad una delle pareti della stiva. La seguì in cerca della porta che lo aveva condotto lì, ma ne trovò una diversa, comunque aperta, che dava su un corridoio identico a quello che ricordava. Pieno di cadaveri. Si fermò per recuperare energia, poi ricordò che aveva la vecchia ricetrasmittente nello zaino. La accese.
    «…prego! Ti prego!» - sentì. La voce usciva dalla ricetrasmittente. Era sua mamma.
    «Mamma! Mamma!» - urlò Max.
    «Max! Max dove sei?»
    «Sono nell’astronave! Scusa mamma…»
    «Nell’astronave! Ma sei pazzo? Esci subito da lì!» - la voce si era indebolita, le vetuste batterie faticavano e lo scafo era un ostacolo difficile da superare.
    «Ci sto provando, mamma…»
    «Veniamo ad aiutarti, stai attento!» - l’ultima parola sfumò verso un caotico rumore di statica e disturbi radio.
    «Mamma!»
    Nulla. Max spense la radio. Intorno a lui solo cadaveri in tute rosse. Pensava che il corridoio potesse portarlo chissà dove, magari verso poppa, e che non avrebbe più sentito sua madre. Pensava che la Revenge era così grande che non lo avrebbero più trovato. Il suo cuore di bambino non sopportava più il buio, il freddo, la morte.
    Una luce fece capolino dalla porta aperta, debole e distante. Un sottile lampo, poi un altro. Ricordò di non aver preso la seconda torcia e pensò che l’uomo della capsula l’avesse raccolta ed ora stesse per raggiungerlo.
    In lontananza sentì «Siamo uguali, Max, siamo umani… se solo tu sapessi! È tutto un inganno… è il tempo Max… solo il tempo… ho viaggiato tanto… dovevamo vivere… un giorno capirai! Diventerete come me!»
    Max si alzò e, riaccesa la sua luce, corse per il corridoio, saltando i cadaveri, talvolta calpestandoli. Con immenso sollievo giunse, senza aver compreso il passare del tempo, fino al corridoio del portello d’uscita. Arrivato all’apertura vide che suo padre stava cercando di entrare nella nave spaziale.
    «Papà!»
    «Max!»
    Si abbracciarono.
    «Ma cosa ti è venuto in mente! Entrare in questo relitto, tutto solo!»
    «Scusa papà. Usciamo subito!»
    La madre li sentì parlare.
    «Max, bambino mio! Oddio, Max, sono quasi morta per la preoccupazione…»
    Uscirono e si trovarono tutti sulla spiaggia, con l’acqua già alle caviglie. Il mare stava salendo rapido.
    «Mamma!»
    «Max! Non fare mai più una cosa del genere! Mi sono immaginata di tutto, pure che lì dentro ci fosse ancora uno di quegli orrendi alieni pallidi.»
    Max smise di respirare.
    «Quali alieni pallidi?»
    «Quelli che… no, non importa lascia perdere. Andiamo a casa.»
    Il nonno si avvicinò ed abbracciò il nipote.
    «Nonno… dobbiamo chiudere il portello!»
    «E perché? Verrà sommerso.»
    «Sì, ma dobbiamo chiuderlo, ti prego. In modo che non si apra mai più.»
    «Ma non…» - il nonno incontrò lo sguardo implorante del nipote - «…e va bene. Paul vammi a prendere il saldatore laser.»
    «Adesso? No adesso no, andiamo a casa. Non c’è bisogno di saldare quel portello» - rispose il padre di Max.
    «C’è bisogno. Fai quello che ti dico.» - il nonno assunse un tono d’urgenza - «E corri che l’acqua sale.»
    «Se ti farà stare meglio…» - disse Paul a Max.
    «Sì, papà, ti prego.»

    Sotto un cielo di fuoco, con l’acqua alle ginocchia, due uomini chiusero il portello e lo saldarono in modo che non potesse aprirsi mai più. Lungo la via del ritorno a casa, risalendo la collina, Max si voltò ad osservare il relitto enorme che attendeva sulla spiaggia. Nell’ultimo istante, appena prima di voltarsi, gli parve di vedere un bagliore nel piccolo e spesso vetro del portello saldato. Avrebbe giurato che ci fosse anche un volto bianco, furibondo, incorniciato nella piccola fessura, ma ad una seconda occhiata era sparito.
    Max corse a casa dove raccontò la sua avventura. Ma non tutta. L’essere che aveva incontrato non comparve nel suo racconto. Voleva, doveva convincersi di averlo immaginato.

    Non scese più alla spiaggia. La sua famiglia pensò che lo spavento gli sarebbe bastato per sempre, ma la verità era che lui non temeva un ricordo. Temeva qualcosa di ancora vivo, nascosto nelle viscere immense e buie di un vascello da guerra morto da oltre cinquant’anni. E temeva la sua profezia.
     
    .
0 replies since 20/4/2024, 12:44   2 views
  Share  
.
Top